Quella di Pavia è una storia ricca di cultura e di prospettive per il futuro che vanno oltre al ruolo del suo ateneo.
Il destino culturale di Pavia sembra indissolubilmente legato a quello della sua università. Un’istituzione con oltre 650 anni di storia, fra le più antiche e prestigiose d’Europa. Vi hanno studiato o insegnato personalità insigni, come Gerolamo Cardano, Camillo Golgi, Alessandro Volta, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Cesare Beccaria, Antonio Scarpa, Lorenzo Mascheroni, Cesare Lombroso, Carlo M. Cipolla, Luigi Luca Cavalli-Sforza e molti altri. Recentemente qualcuno ha anche ricordato che, quand’era ancora ragazzo, per le vie del centro storico bighellonò lo stesso Albert Einstein. Per non parlare di Carlo Goldoni, ospite ribelle del Collegio Ghislieri.
In effetti il ruolo dell’Università di Pavia è stato e resta per molti versi centrale rispetto alle vicende culturali cittadine. È come se l’università agisse da catalizzatore delle energie intellettuali, in grado di fare convergere saperi, competenze, tradizioni e scuole di pensiero. Tutto ruota intorno alle aule che oggi si affacciano fra Strada Nuova e Corso Carlo Alberto, agli istituti periferici, ai ventuno collegi di Pavia. Del resto riusciamo a immaginarla, questa città, senza l’università?
Tanti anni di storia
La famosa scuola giuridica di Pavia era già lì da tre secoli, quando Galeazzo II Visconti ottenne da Carlo IV la fondazione dello studium generale. Proprio quel Visconti a cui si deve il primo grande rinnovamento urbanistico della città, portato avanti dal figlio Gian Galeazzo. Alla loro visione dobbiamo il Castello Visconteo, la “strada nuova” (sul tracciato dell’antico cardo romano) e quello che oggi è il Ponte Coperto sul Ticino (in realtà già esistente in epoca antica e più volte rifatto). E poi ci fu l’università di Maria Teresa d’Austria, sovrana illuminata che avviò, nel XVIII secolo, un grandioso programma di potenziamento delle strutture didattiche e di ricerca. L’assetto edilizio della sede odierna è ancora quello che l’imperatrice le diede.
Eppure si potrebbe affrontare la questione della cultura pavese anche muovendo da una prospettiva diversa, riconducibile alla sua identità architettonica e monumentale. Culla del romanico lombardo, la città testimonia oggi la sua vocazione attraverso due delle chiese medievali più belle del Nord Italia: San Pietro in Ciel d’Oro e San Michele Maggiore (meno significativa San Teodoro, pure vicina nell’impianto alle sue sorelle maggiori). E poi il gotico di Santa Maria del Carmine e della Certosa. Che cosa ci dicono, questi insigni monumenti, sul genius loci della città? Che cosa ci dicono l’arte e la letteratura pavese di ieri e di oggi? Pavia ha avuto le sue stagioni. Quella dell’antica Ticinum, certo. Ma anche quelle novecentesche, che si leggono nelle pagine di Gianni Brera (l’indimenticabile Corpo della ragassa) o nei versi sperimentali dei poeti visivi, che si riunivano negli anni Sessanta intorno al Collegio Cairoli.
Noi pensiamo che la cultura di una città sia fatta di tutto ciò che lascia il segno nei volti e nei cuori dei suoi abitanti. Non solo l’Università di Pavia, dunque. Non solo chiese, castelli e opere d’arte più o meno insigni. Non solo neo-avanguardia. La cultura pavese procede da tradizioni agricole antichissime, dal riso e dall’uva, dal suo fiume lento e da quell’impasto insolubile di nebbia e dialetto che si chiama Bassa. Difficile resistere alla tentazione di fare un bel picnic in Area Vul. Soprattutto, pensiamo che la cultura non sia un’eredità da conservare ed eventualmente esporre in un museo.